Autore: Elena Notaristefano
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27 marzo 2023
Qualche settimana fa mi sono imbattuta, in un gruppo di amanti dell’equitazione su Facebook (i cavalli: la mia grande passione accanto alle neuroscienze), in un post di un padre preoccupato perché la figlia tredicenne, in seguito ad una caduta da cavallo (la sua prima caduta), aveva iniziato a manifestare dei comportamenti “strani”: faticava a recarsi in scuderia, non voleva salire a cavallo, se l’istruttore riusciva miracolosamente a metterla in sella non era in grado di svolgere un normale allenamento, che interrompeva a causa di sintomi ansiosi, riusciva a montare solo in un determinato campo ecc… Il padre, ancora inesperto riguardo al mondo vero dell’equitazione, chiedeva quindi se a distanza di oltre un mese fosse normale un comportamento del genere e chiedeva consigli per aiutare a la figlia a superare questa situazione. Come potete immaginare, il 90% dei commenti verteva sul fatto che cadere da cavallo, facendo equitazione, è assolutamente normale: la ragazzina deve superare con le sue forze la paura e sforzarsi di rimontare in sella come prima. Un ragionamento assolutamente corretto, perché tutti noi, me compresa, siamo andati incontro a cadute (a volte anche rovinose), e tutti noi siamo risaliti in sella, con un po’ di timore, ma tutto sommato senza alcuna grave conseguenza a livello di approccio allo sport. Ma… siamo proprio certi che questo valga sempre e per tutti? Non ho potuto non rispondere a quel genitore preoccupato, e non da amazzone, ma da psicoterapeuta esperta in psicotraumatologia. Riflettendoci, quella caduta, probabilmente per una serie di fattori, per quella ragazzina ha rappresentato qualcosa di più di un semplice incidente di percorso, ma un trauma , che ad oggi a quanto pare non è stato elaborato. Da cosa l’ho intuito? Ad esempio, i comportamenti di evitamento, del tutto nuovi e inaspettati, che ha messo in atto: non voler andare in maneggio, il non voler fare lezione, il non voler fisicamente stare vicino al suo amato pony. Dal fatto che avesse una sintomatologia ansiosa apparentemente inspiegabile tale da “bloccarla” nella quotidianità. Le crisi di pianto, l’angoscia. Ho consigliato quindi al padre di far aiutare la figlia da un clinico, da uno psicologo, per capire effettivamente quale fosse il nucleo del problema ed elaborare l’evento. A quel punto, come potete immaginare, lo stupore generale: “Cadere da cavallo può essere un trauma?!?! Addirittura?!”. E ancora “Psicoterapia per una cosa così banale? Ma non esageriamo!”, eccetera. Qualcosa di così banale, certo. Cadere da cavallo, litigare con una persona cara, essere bocciati ad un esame. O ancora, subire un'umiliazione, fare un piccolo incidente in auto. Eventi come questi, se vogliamo "quotidiani", possono essere “traumatici”? La risposta è SI, tutto può essere un trauma. Vediamo perché. COS'E' UN TRAUMA? Nel linguaggio comune, ci si riferisce ad un trauma parlando di un evento che, per gravità e intensità, va a sconvolgere la vita di chi, ahimè, lo ha vissuto. Ne sono un esempio i terremoti, le alluvioni, i disastri aerei. Si ignora però che esiste anche un altro tipo di trauma. Per capirlo facciamo un passo indietro e analizziamo l’etimologia della parola. Cosa significa “trauma”? Trauma deriva dal greco e vuol dire “ ferita ”. Il trauma psicologico, dunque, può essere definito come una “ferita dell’anima”, come qualcosa che rompe il consueto modo di vivere e vedere il mondo e che ha un impatto negativo sulla persona che lo vive . Potete quindi capire che esistono diverse forme di esperienze potenzialmente traumatiche a cui può andare incontro una persona nel corso della vita. Ci sono come abbiamo detto i traumi con la T maiuscola, i “ grandi traumi ”, ovvero tutti quegli eventi che portano alla morte o che minacciano l’integrità fisica propria o delle persone care (ad esempio disastri naturali, abusi, incidenti etc.) Ma accanto a questi ci sono i “ piccoli traumi ” o “ t ”, ovvero quelle esperienze soggettivamente disturbanti che sono caratterizzate da una percezione di pericolo non particolarmente intesa. Si possono includere in questa categoria eventi come un’umiliazione subita, delle interazioni brusche con delle persone significative durante l’infanzia, o, perché no, una “banale” caduta da cavallo. Allora, cosa rende o no un evento un trauma? L’ago della bilancia non è mosso dalla gravità dell’evento, né dal giudizio clinico del terapeuta: chi decide cosa è o non è un trauma è la persona stessa che lo ha vissuto. O meglio, come vedremo poi, il suo cervello . Nonostante gli eventi sopra descritti riferiti alle due tipologie di trauma siano molto differenti, la ricerca scientifica ha dimostrato che le persone reagiscono, dal punto di vista emotivo, mostrando gli stessi sintomi. C’è da dire, però, che non tutte le persone che vivono un’esperienza traumatica reagiscono allo stesso modo. Le risposte subito dopo uno di questi eventi possono essere moltissime: ad un estremo c’è chi recupera completamente e ritorna ad una vita normale in un breve periodo di tempo in maniera del tutto naturale (e vedremo perché) e, all’estremo opposto, c’è chi invece sperimenta reazioni più gravi, quelle che impediscono alla persona di continuare a vivere la propria vita come prima dell’evento traumatico, fino ad arrivare a manifestare i sintomi del Disturbo da Stress Post Traumatico. COME REAGISCE IL NOSTRO CERVELLO DI FRONTE AD UN TRAUMA? Quando siamo esposti a segnali di pericolo ci sentiamo minacciati e siamo portati in maniera naturale a preparare una risposta adattativa . La percezione della paura e le conseguenti risposte comportamentali sono cruciali per l’adattamento all’ambiente e per la sopravvivenza delle specie. L’attivazione del sistema nervoso alla percezione del pericolo determina una reazione di lotta, di fuga o di freezing, tutte reazioni fisiologiche adattative allo stress. In pratica, siamo “fatti” per gestire gli eventi stressanti senza riportare gravi conseguenze. Potremmo dire, quindi, che siamo naturalmente portati per cadere da cavallo e rimontare immediatamente in sella. Le regioni cerebrali coinvolte in questo processo sopra descritto sono parte di un sistema complesso, chiamato sistema limbico , filogeneticamente antico, che interviene nell’elaborazione dei comportamenti correlati, appunto, con la sopravvivenza della specie: elabora le emozioni e le manifestazioni vegetative che a esse si accompagnano, ed è coinvolto nei processi di memorizzazione. Ma - senza addentrarci troppo nei meandri della neurofisiologia – cosa succede quindi subito dopo aver vissuto un evento traumatico? Succede che il nostro organismo e il nostro cervello vanno incontro ad una serie di reazioni di stress fisiologiche, che coinvolgono le strutture sopra citate, che nel 70-80% dei casi tendono a risolversi naturalmente senza un intervento specialistico. Questo avviene perché l’innato meccanismo di elaborazione delle informazioni presente nel cervello di ognuno di noi è stato in grado di integrare le informazioni relative a quell’evento all’interno delle reti mnestiche del nostro cervello, rendendolo “digerito”, ricollocato in modo costruttivo e adattivo all’interno della nostra capacità di narrare l’accaduto. E se questo invece non avviene? E' chiaro quindi che l’essere stato vittima di un evento traumatico porta a conseguenze che possono essere riscontrabili non solo a livello emotivo, ma che lasciano il segno anche nel corpo di chi è sopravvissuto a uno di questi eventi. Le ricerche scientifiche hanno dimostrato che le persone che hanno vissuto traumi importanti nel corso della vita portano i segni anche a livello cerebrale. Ma per essere più chiari e leggeri, facciamo un esempio. Ipotizziamo che la nostra giovane amazzone - che chiameremo Sara - quel giorno sia caduta da cavallo perchè un forte rumore aveva fatto spaventare - e di conseguenza sgroppare e scappare - il suo pony. Ipotizziamo che oggi sia una giornata buona e che Sara si sia fatta coraggio e sia montata in sella. Tutto procede in maniera tranquilla, lei è in campo, il suo pony non mostra segni di nervosismo, l'istruttore spiega gli esercizi. Ma ipotizziamo che ad un certo punto una folata di vento faccia cadere qualcosa - provocando un rumore secco, esattamente come è accaduto il giorno dell'incidente. Il cavallo fa quello che qualsiasi cavallo farebbe in quel momento: modifica istantaneamente il proprio atteggiamento, alzando la testa e puntando le orecchie in direzione del rumore (piccolo excursus: i cavalli sono animali predati e hanno un cervello molto più basic del nostro: lo stimolo sensoriale, in questo caso il rumore, arriva al sistema limbico, che lo analizza, e da lì passa immediatamente alla corteccia motoria per mettere in atto una reazione adattiva di fuga, senza passare dal giudizio della corteccia prefrontale - tenete a mente questo nome, è importante - che decide se il pericolo è effettivo o meno...semplicemente perchè ne sono sprovvisti. Ovviamente la selezione naturale, l'addestramento e la fiducia nel proprio cavaliere mitigano in grandissima percentuale questa reazione). Sara in passato ha affrontato questa situazione centinaia di volte: sa che il rivolgere l'attenzione al rumore non corrisponde ad una reazione di paura nel suo pony, e quindi ogni volta è rimasta calma. A dire il vero, nella stragrande maggioranza dei casi non si è nemmeno accorta di questo istantaneo e impercettibile cambiamento nel suo cavallo, che ha poi continuato a passeggiare tranquillo. Ma oggi, dopo quella caduta traumatica, cosa succede nel cervello di Sara? Ipotizziamo che, conseguentemente al trauma ed al passare del tempo, il cervello di Sara abbia iniziato una lenta modifica. Ci sono delle strutture cerebrali che funzionano diversamente da prima, in particolare due: l'amigdala e la corteccia prefrontale. L' amigdala è una piccola struttura che fa parte del sistema limbico, ed è la sentinella che analizza gli stimoli sensoriali in entrata e decide se si trattano o meno di una minaccia. Quando accade qualcosa c i dice in pratica se scappare a gambe levate o meno. La corteccia prefrontale (che è quell'area di cui vi parlavo prima di cui i cavalli sono sprovvisti), al contrario, ha il compito di risolvere i problemi, pianificare e moderare il nostro comportamento, decidere cosa è una minaccia e cosa non lo è. In pratica è la "parte razionale" del nostro cervello. Solitamente, lo stimolo sensoriale (in questo caso il rumore) arriva alla "stazione centrale" del nostro cervello, ossia il talamo, che invia lo stimolo in due direzioni: all'amigdala, che decide in pochi millisecondi di cosa si tratta, e alla corteccia prefrontale, che decide se effettivamente il pericolo c'è o no. La reazione dell'amigdala è ovviamente molto più veloce, perchè nella malaugurata ipotesi in cui la minaccia per la sopravvivenza sia reale, l'organismo per mettersi in salvo deve mettere in atto istantaneamente una reazione di lotta o fuga attraverso un rilascio a cascata di alcuni ormoni. A quel punto però interviene la corteccia prefrontale, che ha l'ultima parola: se la minaccia non c'è, l'amigdala viene inibita - tranquillizzata - e la reazione di paura non si presenta. Ma nel cervello di Sara accadono due cose contemporaneamente: l'amigdala funziona molto più del dovuto, mentre la corteccia prefrontale molto meno. Qual è la conseguenza? Che quel rumore, quelle orecchie puntate in avanti, vengono percepite come la peggiore delle minacce e vogliono dire una sola cosa " ATTENZIONE!!!!!!!! PERICOLO!!! ". Da lì è un attimo: palpitazioni, sudorazione, dispnea, agitazione incontrollabile...il vero e proprio panico. In pratica, senza un adeguato intervento della corteccia prefrontale, l'amigdala continuerà a inviare un segnale di pericolo anche di fronte a qualcosa di neutro o innocuo, con una conseguente reazione di paura e panico assolutamente spropositata rispetto a ciò che sta accadendo. Questo è solo un esempio estremamente semplificato, ovviamente. Sono molte di più le strutture che subiscono una modificazione dopo un trauma: all'amigdala e alla corteccia prefrontale aggiungiamo l'ippocampo, il talamo, l'insula, il cervelletto, l'area di Broca... Queste scoperte, avvenute negli ultimi anni grazie all’utilizzo di strumenti di indagine sempre più sofisticati, gettano luce sulla stretta connessione mente-corpo. Ciò che ha un impatto emotivo molto forte si ripercuote anche a livello corporeo, quindi, risulta evidente che intervenire direttamente sull’elaborazione di questi eventi traumatici abbia un effetto anche la neurobiologia del nostro cervello. I SINTOMI DEL TRAUMA Alcune persone continuano a soffrire per un evento traumatico anche a distanza di moltissimo tempo dall’evento stesso. Spesso riportano di provare le stesse sensazioni angosciose e di non riuscire per questo motivo a condurre una vita soddisfacente dal punto di vista lavorativo e relazionale. In questi casi, quindi, il passato è presente. Anche se transitorie, tali reazioni possono essere molto sgradevoli e sono tipicamente caratterizzate da fenomeni che si possono raggruppare in tre ambiti principali: il ricordo dell’esposizione traumatica (flashback, pensieri intrusivi, incubi: la percezione di rivivere ancora e ancora l'evento); l’attivazione (ipervigilanza, insonnia, agitazione, irritabilità, impulsività e rabbia); la disattivazione (freezing, evitamento, fuga, confusione, derealizzazione, dissociazione). Queste reazioni fisiologiche allo stress sono per definizione auto-limitanti e in generale provocano una modesta compromissione funzionale nel tempo. Ma, per una minoranza significativa della popolazione, questo quadro sintomatologico può arrivare ad aggravarsi fino a delinearsi in un Disturbo da Stress Post-Traumatico, che è un disturbo caratterizzato appunto dal “rivivere” continuamente l’evento traumatico, continuando a provare tutte le emozioni, le sensazioni ed i pensieri negativi esperiti in quel momento. Quando ci si rende conto che le reazioni sono di questo tipo, che la sofferenza è significativa e che "il tempo non migliora le cose" è necessario chiedere aiuto ad uno specialista (vedi la sezione dedicata alla psicoterapia e alla terapia E.M.D.R. ). Come è finita la storia di Sara? Il padre mi ha contattata, svelandomi che la figlia, fin da piccola, soffriva di attacchi d’ansia e che aveva iniziato a montare a cavallo proprio su indicazione dello psicoterapeuta. Io non so cosa di questo incidente l’abbia così colpita - ferita, a questo punto direi. Non so se si tratti di un trauma emotivo, psicologico, fisico. Magari un insieme dei tre. Quello che so è che ci sono molti elementi che portano a pensare che la sua mente si sia bloccata su questo evento. Ma non temete, nulla è perduto: con l’aiuto giusto, con il giusto terapeuta e le giuste tecniche di intervento non esiste trauma che non possa essere elaborato. So che vi state chiedendo: ma alla fine la nostra piccola amica è tornata a galoppare felice in sella al suo amato destriero? Sono certa che, se non oggi, questo accadrà domani. Bibliografia https://www.stateofmind.it/2017/07/cervello-traumatizzato/ https://www.emdr.it https://www.istitutobeck.com/neuroscienze-trauma?sm-p=1309862522 L. Musella, “Evoluzione dell’EMDR. Da tecnica ad approccio terapeutico”, Hogrefe Editore, Firenze, 2022. Psych Central. (2017). The 3 Parts of Your Brain Affected by Trauma. Psych Central. Retrieved on July 4, 2017 Kessler, R. C. (1995). Posttraumatic Stress Disorder in the National Comorbidity Survey. Archives of General Psychiatry, 52(12), 1048.